Lunedì 18 marzo 2019 è arrivata la triste notizia della morte di Lorenzo Orsetti, Orso, per tutti quelli che lo conoscevano più o meno bene a Firenze.

Questo evento mi ha scosso molto più di quanto mi aspettassi, non solo per il fatto in sé, ma soprattutto per il significato dietro tutta questa storia.

Premetto che dire che lo conoscevo è eccessivo, sono sempre stato più a contatto con persone a lui molto vicine (alcuni di loro sono stati miei collaboratori per anni), ma era stato uno dei frequentatori di Gold e del Logic. Orso (della Tullo Soldja) era uno dei ragazzi più piccoli della mia generazione che faceva parte di quella tipologia di umanità che preferisco: i ribelli. Quelli che per molti sono irregolari. Quelli che ascoltano la musica diversa dagli altri (nel nostro caso era il rap prima che diventasse pop). Quella tipologia di persone (di cui mi sento di far parte) che per molti sono pecore nere ma per alcuni sono mosche bianche.

Non mi addentrerò sui risvolti penosi dei commenti complottisti che ho letto sui social o sull’ipocrita cordoglio istituzionale in forte contrasto ai processi ai vari foreign fighters tornati vivi.
Penso che si commentino da soli.

Quando circa un anno e mezzo fa seppi che stava partendo per combattere in prima linea contro l’Isis rimasi perplesso (oltre che ovviamente stupito). La lessi più come una ricerca di una causa per cui combattere, troppo grande per una “persona comune” e, da buddista che ha sempre ripudiato la violenza e la guerra, sinceramente non capii. Anzi, a dirla tutta, lo giudicai superficialmente.

Successivamente però iniziai a leggere ciò che scriveva su Facebook e, vedendo da vicino i suoi compagni rimasti a Firenze sostenere la causa curda e la sua battaglia, mi resi conto che questa causa l’aveva sposata davvero. Fino in fondo. Fino al punto di chiedere di essere sepolto in Siria.

E arriviamo a lunedì. È ipocrita pensare che questa notizia fosse del tutto inaspettata, dopotutto era proprio in prima linea. Anzi, sembrava proprio che fosse il primo ad andare in prima linea.
Nonostante questo, apprendere della sua dipartita mi ha turbato fortemente.

Personalmente, quando si parla di sposare una causa, preferisco più un approccio creativo/culturale volto alla creazione di valore piuttosto che quello più “pratico/muscolare”. Rimanendo sul tema Curdo, giusto per fare un esempio, sono molto più affine al metodo di Zerocalcare che, utilizzando il suo linguaggio, ha realizzato un reportage andando fisicamente a pochi chilometri dalla città assediata di Kobanê, schierandosi a fianco dei difensori curdi del Rojava in lotta contro lo Stato Islamico. Sì, anche lui ha messo a rischio la sua vita andando in una zona di guerra, ma senza prendere in mano armi.
Ma questo è ovviamente solo il mio punto di vista.


Tavola di Kobane Calling di Zerocalcare

Dare la vita per un ideale è il gesto più nobile che si possa immaginare, figuriamoci quando non si tratta di farlo solo metaforicamente.

Non penso che sarei mai in grado di imbracciare un fucile e puntarlo contro un altro essere umano ma non posso fare a meno di pensare che la battaglia di Orso sia una di quelle giuste per cui combattere. Ha messo in atto la frase retorica "aiutiamoli a casa loro" più di chiunque altro.

E allora quando è che dobbiamo difendere un ideale a costo della vita? Quando ha senso sentirsi privati della libertà? La libertà viene tolta solo quando l’invasore arriva in casa tua o lo è anche quando è fisicamente lontano e la mina attraverso il terrore? Quanto era impellente il bisogno di reagire per lui? Esiste un momento in cui la guerra ha un senso?

Tante domande e quasi nessuna risposta, ma la cosa che mi è riaffiorata alla mente in questi giorni è una frase che ho letto su un libro: la vita non ha significato di per sé, lo devi creare tu stesso per la tua vita. Se non lo fai, non vivi veramente. Esisti e basta.

Ecco, al netto di tutto, la vita di Orso, nonostante sia stata troppo breve, è stata sicuramente una vita vissuta e degna di essere ricordata per sempre.


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