No Borders VR
Dopo aver scoperto la possibilità di realizzare video per la realtà virtuale, il giorno in cui uscì sul mercato il primo visore consumer, il Samsung Gear, lo acquistai immediatamente. Era il febbraio del 2015, e il visore si combinava con lo smartphone Galaxy Note 4. Al suo interno c’era un video dimostrativo di Felix & Paul, una delle società leader del settore, che mostrava luoghi lontani, animali esotici e un frammento di una performance del Cirque du Soleil.
Ricordo di aver visto e fatto vedere questo video centinaia di volte a chiunque mi fosse vicino. Poco dopo, acquistai le GoPro e il rig necessario per iniziare a girare qualcosa, poiché a quel tempo non esistevano ancora le action cam che registravano a 360 gradi.
Per far capire quanto fosse pionieristico quel periodo, il rig che utilizzammo per le prime produzioni era un progetto open source, autoprodotto con stampanti 3D.
Tra le prime persone con cui condivisi questo nuovo “giocattolo” c’era Elio Germano. Lo conoscevo già dai miei trascorsi nell’ambiente underground e hip hop, e anche lui si mostrò entusiasta di esplorare questo nuovo mondo.
Ci accomunava la consapevolezza che questo mezzo, seppur con potenziale distopico, era impossibile da ignorare. La nostra risposta era quella di fornire una proposta virtuosa.
Decidemmo di utilizzare questa tecnologia per riflettere su di essa, ed è così che nacque “No Borders VR”, un breve documentario che raccontava il fenomeno migratorio dall’interno.
Ripensando alla Storia del Cinema, la prima cosa che fecero i fratelli Lumière fu mandare le loro cinecamere in giro per l’Europa, offrendo al pubblico la possibilità di vedere e vivere luoghi lontani e inaccessibili. L’intuizione di “No Borders VR” fu simile: offrire agli spettatori un punto di vista diverso su qualcosa di socialmente distante dal quotidiano, ma ben noto nell’immaginario collettivo.
Ricordo ancora quando Elio propose di filmare il centro di accoglienza spontaneo di Ventimiglia. I media tradizionali mostravano sempre lo stesso scorcio con il solito scoglio, mentre noi avevamo una tecnologia che poteva portare “fisicamente” chiunque all’interno di quel contesto.
Inizialmente, le riprese a Ventimiglia furono un test sperimentale. Successivamente, riprendemmo il Presidio Baobab di Roma, mentre era attivo e funzionante, intervistando i volontari che lo rendevano vivo.
Le nostre intenzioni erano di unire queste clip e condividerle su YouTube, che aveva appena introdotto i video a 360° e i cardboard. Poco prima della scadenza, scoprimmo un bando per progetti audiovisivi sul fenomeno delle migrazioni, MigrArti. Decidemmo di partecipare con Gruppo Cadini, l’azienda di mio padre, che aveva i requisiti necessari.
Quando ci arrivò la comunicazione della vittoria, il centro Baobab era stato sgomberato. Riprendemmo la strada e gli spazi svuotati, montando il materiale precedente per visualizzare in modo immersivo il passare del tempo e l’insensatezza dello sgombero.
Infine, Elio intervistò l’Onorevole Khalid Chaouki, che offrì un punto di vista istituzionale e critico sulle migrazioni. Integrammo immagini di repertorio a 360°, inserendole nell’ambiente virtuale su schermi a 120°, tecnica che funzionò bene e che riproponemmo successivamente.
Sul fronte audio, coinvolgemmo Gabriele Fasano, sound designer cinematografico, che completò il lavoro sonoro con registrazioni ambientali adeguate.
Realizzammo così “No Borders VR”, il primo documentario italiano in realtà virtuale. Il titolo rifletteva sia il nome del centro di accoglienza di Ventimiglia, sia l’assenza di confini visivi tipica del linguaggio cinematografico tradizionale.
Il documentario fu un successo di critica, vincendo il premio MigrArti a Venezia e ottenendo una menzione speciale ai Nastri d’Argento 2017. Tuttavia, solo pochi poterono vederlo con un visore, data la scarsa diffusione dei device.
Nonostante questo limite, la mia voglia di ricercare e sperimentare non si è mai affievolita.